Gottfried van Swieten
Perplesso, il principe rilesse; poi la sua espressione austera parve stemperarsi in un accenno di sorriso. Ciò che aveva letto lo rassicurava : finché Federico si occupava di queste cose, Vienna e l'intera Europa potevano starsene tranquille. In perfetto francese, il suo ambasciatore a Berlino lo relazionava su un colloquio avuto col Re qualche giorno prima. Il resoconto si dilungava in dettagli a prima vista irrilevanti – ma un funzionario coscienzioso sa che la sintesi è un rischio più che non sembri, specie avendo a che fare con certi personaggi. Il principe si immaginò il suo ambasciatore e Federico a colloquio nello studio reale, intenti a divagare sui fatti del giorno come due comari al mercato. Ad un tratto, il sovrano si alza e intona a voce alta e ben impostata un soggetto di Fuga cromatica davanti allo stupefatto ambasciatore.
Il principe era von Kaunitz, Primo Ministro del Sacro Romano Impero. Il re era Federico II di Prussia, che i posteri avrebbero fatto Grande ; l’ambasciatore imperiale era il barone Gottfried van Swieten, e quel loro strano colloquio sarebbe stato giudicato, molti anni più tardi, “una delle grandi scene dell’umana cultura”.
A Berlino si parlava ancora di un avvenimento che risaliva a due mesi prima, un concerto tenuto da un organista straordinariamente dotato, tale Bach. Questo non più giovane e squinternato musicista risultava essere figlio di quel Bach che era stato Director Musices a Lipsia. Il Re concordava sull’eccellenza dell’organista; non mancò però di far notare al suo interlocutore che chi aveva conosciuto il padre sapeva come costui fosse ancora più grande. Proprio lì, in quello stesso palazzo, il “vecchio Bach” era venuto a fargli visita una trentina d’anni prima. Tre decenni in cui il “Re flautista”, aveva impugnato la spada molto più che il flauto. Proprio quel Kaunitz che stava idealmente dietro l'ambasciatore che gli sedeva di fronte gli aveva aizzato contro l’intera Europa. Era stata una guerra terribile e senza quartiere (che fosse stato lui stesso a scatenarla invadendo senza tanti complimenti la Slesia poté esserselo nel frattempo dimenticato). Dopo vittorie esaltanti e cocenti sconfitte, a dispetto di un rapporto di forze schiacciante, la giovane Prussia aveva infine avuto ragione del vecchio Impero e ne era uscita vincitrice, raddoppiata di territorio e col rango indiscusso di grande potenza.
Quando era venuto il vecchio Bach, Federico aveva trentacinque anni ed era appena succeduto sul trono al padre Federico Guglielmo, il “Re sergente” che non aveva mai indossato altro che l’uniforme militare. Il figlio era ben diverso, come si era potuto intuire dai burrascosi rapporti che i due avevano intrattenuto. Uno dei primi atti di regno dell’ex-principe “pifferaio e poeta” fu assumere musicisti che dessero lustro alla corte, così come suo padre li aveva cacciati. Suo Konzertmeister era allora il secondo figlio del vecchio Bach, Carl Philipp Emanuel. Del vecchio maestro, Federico aveva sentito raccontare mirabilia non solo dal figlio; anche il conte von Keyserling, ambasciatore dell’Impero Russo, non faceva che parlargli della sua musica, in specie le Variazioni che d’abitudine si faceva suonare dal fido Goldberg per colmare i vuoti delle sue notti insonni. Il desiderio di conoscerlo e di constatare all’opera la sua arte impareggiabile si tradusse in un invito formale da parte del re. Johann Sebastian partì da Lipsia alla volta di Potsdam. Lo accompagnava il figlio maggiore Wilhelm Friedemann, allora organista a Halle, lo stesso che ventisette anni dopo avrebbe destato scalpore nella capitale prussiana col suo concerto.
È Forkel, il primo e più importante biografo di Bach, a riferirci. Fu il Re stesso a dare la notizia ai suoi ospiti, “con una specie di eccitazione” nella voce : – Signori, il vecchio Bach è arrivato.– Il concerto di ogni sera, rituale ripetitivo e inevitabile come può esserlo una liturgia prussiana, è cancellato. Federico manda a prendere il vecchio Bach senza dargli neppure il tempo di cambiarsi d’abito e lo accompagna in ogni angolo della reggia dove vi fosse uno strumento a tastiera da mostrargli. Aveva acquistato, fra gli altri, l’intera produzione dei modernissimi pianoforti di Silbermann e ne aveva disseminati una quindicina per il palazzo. Da grande esperto, Bach si sedeva e provava gli strumenti sotto gli occhi dei Kapellisten di Federico, mentre il padrone di casa si beava a sentirlo probiren und fantasiren. Quindi, Bach chiese al Re di proporgli un tema sul quale improvvisare una Fuga. Federico non si fece pregare e strimpellò un tema ad hoc nient’affatto banale. L’aveva concordato nei giorni precedenti coi musicisti che ora erano lì intorno a far finta di nulla. Sul “tema regio” Bach avrebbe poi lavorato a lungo, fino a costruirgli intorno l’intera Offerta Musicale. Ma lì per lì gli imbastì sopra una Fuga a due voci e una a tre, brillantemente improvvisando. Nel rapporto di van Swieten a Kaunitz si parla di cinque e otto voci, ma si esagera. Per il resto, Federico evoca con lucidità quella lontana sera, traendone il ricordo inoffuscato da sotto una trentennale catasta di movimentate stagioni della sua movimentata esistenza, e ne fa partecipe (vocalizzi compresi) l’imperiale ambasciatore.
Fu così che il barone van Swieten scoprì il vecchio Bach, e “attraverso il contatto più alto che si possa immaginare tra i maggiori Stati tedeschi, la grandezza di Johann Sebastian Bach raggiunse il mondo musicale della capitale imperiale”.
Non era la prima volta che van Swieten incontrava ombre gigantesche provenienti dal passato. Negli anni ’60, all’inizio della sua carriera, era stato addetto d’ambasciata a Londra, dove gli Oratori di Händel tenevano ancora cartello. Tanto bastò a fare di lui, giovane diplomatico con vivaci interessi musicali, un fervente handeliano.
A quel tempo, i grandi maestri della Germania del Nord erano tutt’altro che noti nell’Impero dei tedeschi del Sud. Händel in patria c’era stato poco; di Bach s’è detto che, ancora in vita, fosse già stato dimenticato. Si tratta di una lagna diffusa dai suoi biografi di seconda generazione forzando la realtà dei fatti. Tuttavia, la sua notorietà – così come la sua persona – non uscì fuori dalla Germania luterana e si restrinse alle élite musicali dopo la sua morte. Il risultato fu che i due grandi coetanei sassoni potevano risultare illustri sconosciuti a un colto aristocratico viennese della generazione seguente. Solo in quanto diplomatico, fuori dalla sua patria, van Swieten poté avere accesso ad ambienti in cui le tradizioni tardo-barocche di Händel e Bach non avevano ancora perduto la loro attualità. La scoperta colpì la sua sensibilità al punto da orientare i suoi interessi in modo permanente, e forse leggermente maniacale e ossessivo, verso la “musica antica” (allora non più vecchia di mezzo secolo).
In precedenza, come ogni buon dilettante del tempo, il giovane van Swieten non si era limitato ad ascoltare o eseguire musica d’altri, ma ne aveva composta di propria. Di sua mano risultano un paio di Singspiele e una dozzina di Sinfonie. Non capolavori epocali, probabilmente; Haydn, che avrebbe ben conosciuto più avanti il Barone, tiene a informarci che le Sinfonie di van Swieten sono “rigide come il loro autore”. Se il diplomatico era poco musicista, il musicista era poco diplomatico.
Comunque, la rivelazione della grandezza degli antichi maestri pone in secondo piano l’interesse del giovane funzionario d’ambasciata per la musica contemporanea e fine alle sue velleità di compositore. D’ora in poi ciò che gli starà più a cuore sarà scovar fuori antiche partiture da riportare alla vita. Frequentando antiquari e circoli aristocratici delle capitali in cui lo porteranno i suoi incarichi diplomatici, van Swieten riuscirà a mettere insieme una raccolta di musiche “antiche” di non grandi dimensioni, ma di grande qualità, se dobbiamo stare alla valutazione che ne diede più tardi Mozart.
Fu la professione paterna a portare Gottfried van Swieten, ragazzo, a Vienna. Il padre Gerard divenne Leibarzt und Berater, medico personale e consigliere, della giovane Kaiserin Maria Teresa e si trasferì dalla nativa Olanda nella capitale austriaca trasportandovi la famiglia. Suo figlio Gottfried Freiherr, il futuro ambasciatore, era nato a Leida nel 1733 e aveva undici anni quando avvenne il trasloco. Il giovane, educato come si conviene a un rampollo di nobile famiglia al gesuitico “Theresianum”, abbracciò poi la carriera diplomatica. Fu funzionario d’ambasciata presso alcune delle maggiori capitali europee: Bruxelles (1755-57), Parigi (1760-63), Varsavia (1763-64), Londra (1768-69); infine fu Ambasciatore Straordinario a Berlino (1770-77). Non abbiamo dubbi sulla sua professionalità di asburgico funzionario imperiale, anche se fin dai tempi di Bruxelles risulta dalle note personali stilate dal suo superiore che “la musica gli porta via la maggior parte del tempo”. Né v’è motivo di ritenere che la situazione sia migliorata dopo la “conversione handeliana” subita a Londra; tanto meno dopo il colloquio berlinese con Re Federico. Si può osservare, a sua discolpa, che fa parte dei compiti di un buon diplomatico non trascurare alcun canale attraverso cui introdursi convenientemente presso la Corte ospite. Indubbiamente il canale musicale che portava dentro la Corte di Prussia, completamente inagibile ai tempi del Re Sergente, era di una straordinaria navigabilità ai tempi di Federico. E il nostro Ambasciatore Straordinario ci veleggia in lungo e in largo. Fra i Kapellisten del Re sono i fratelli Graun, i fratelli Benda e il suo maestro personale di flauto Quantz – unico autorizzato a far rilevare a Sua Maestà una nota sbagliata – nonché Johann Friedrich Agricola, già allievo di Bach. Anche la principessa Anna Amalia, sorella di Federico, è musicista, e non del tutto trascurabile. Suona il cembalo e compone, avendo come maestro di musica un altro allievo di Bach, Johann Philipp Kirnberger, uno di coloro che si diedero da fare per raccogliere i manoscritti del maestro. A lui va il merito di avere segnalato alla principessa l’originale dei Brandeburghesi, salvandolo da una probabile dispersione. Immaginiamo il nostro diplomatico a suo completo agio nel salotto musicale della principessa e più che mai interessato alla sua musicale biblioteca. In entrambi gli ambienti sembra aleggiare l’ombra del vecchio Bach, rappresentato qui dai suoi allievi e là dalle sue partiture. Di queste, un po’ riuscì ad averne, di altre si fece copia.
Della compagnia non faceva più parte Carl Philipp Emanuel Bach. Il Konzertmeister, stufo della “universal caserma prussiana” e più ancora dello strapotere di Quantz, se n’era andato ad Amburgo nel 1768 ad occupare quel posto di musico cittadino che la dipartita di Telemann, suo padrino di battesimo, aveva reso vacante. L’intraprendente Barone si mise senz’altro in corrispondenza con lui e l’anno stesso del fatale colloquio con Federico andò a fargli visita nella città anseatica. van Swieten ebbe dal figlio alcune composizioni del Kantor, in specie Fughe, che sarebbero state pubblicate solo molti anni dopo. La visita diede anche altri risultati. Il Barone commissionò al suo ospite sei Sinfonie per orchestra d’archi, stabilendo un curioso capitolato : l’autore avrebbe dovuto “seguire la sua Musa, senza tener conto delle difficoltà tecniche che avrebbero potuto insorgere durante l’esecuzione”. Nella sua Autobiografia, C.P.E. Bach afferma che a volte dovette sottostare a “ridicole istruzioni” da parte dei suoi committenti. Non sembra però essere quello il caso cui si riferiva, se ne risultarono le sei scintillanti Sinfonie Wq182, esemplari dell’estetica dell’Empfindsamkeit cara al loro autore. In seguito, il musicista ritenne di sdebitarsi dedicando al Barone il terzo libro della sua raccolta cembalistica Für Kenner und Liebhaber (Wq57). I due uomini dovettero intendersi, al di là delle rispettive asperità caratteriali, all’ombra del grande patriarca la cui memoria sopravviveva nei ricordi del figlio e occupava la mente del visitatore.
Nel 1777, tornato a Vienna alla fine del suo mandato, van Swieten fu nominato da Maria Teresa Prefetto della Hofbibliothek, la Biblioteca di Corte, subentrando nell’incarico al padre Gerard. Più tardi, nel 1782, il nuovo Imperatore Giuseppe II gli affidò anche l’importante ruolo di Presidente della Hofkommission per l’Educazione e la Censura. Malgrado i suoi gusti musicali fossero rivolti al passato, il Barone non era un conservatore e appoggiò la politica riformista del suo Imperatore.
Attorno a van Swieten e alla sua Bibliothek si aggregò un gruppo di musicisti e Liebhaber che in qualche modo condivideva le opzioni estetiche importate dal diplomatico. In breve, il barone e la sua cerchia divennero gli arbitri del gusto musicale della capitale. Vienna, che non conosceva né Bach né Händel, cominciò a sorseggiare il vino – sarebbe più pertinente dire la birra – dei maestri settentrionali e finì col prenderne la sbornia. Le sale della Hofbibliothek ospitavano continuamente riunioni musicali, accademie e concerti in cui venivano studiate ed eseguite le partiture dei due grandi sassoni, con una particolare predilezione per le Fughe. Fu così che una componente maniacale del carattere del Barone musicofilo si trasformò in moda cittadina. Vi fu un periodo attorno all’inizio degli anni ’80 in cui la Fuga, nelle sue molteplici varianti, fu la minestra quotidiana dei musicisti viennesi. Chi s’è preso la briga di contare i compositori che rimasero contagiati dal nuovo gusto ne ha inventariati più di cinquanta. Non che la Fuga fosse sconosciuta nell’Austria felix. La Fuga, come tutte le forme di contrappunto, era stata in uso in passato e lo era ancora nello stile severo, specie chiesastico. Ma da un pezzo non si udiva più nulla di paragonabile alle possenti architetture fugate che erano risuonate nel Nordraum tedesco ai tempi di Bach.
Nello stesso anno in cui van Swieten viene nominato Presidente della Hofkommission, Mozart si stabilisce a Vienna e viene attratto nella cerchia del Barone. L’aveva già conosciuto da ragazzino: sul cembalo di van Swieten aveva eseguita tutta intera la sua Finta Semplice, a smentita di chi sosteneva trattarsi di un’opera ineseguibile.
Ogni domenica mattina, per un paio d’anni, Mozart ebbe un appuntamento fisso e lo rispettò con insolita perseveranza – crediamo più della messa domenicale. Arrivava puntuale con la sua viola sotto braccio e tornava a casa portandosi in prestito i preziosi spartiti del Barone. A casa Swieten in Josephsplatz si celebravano le liturgie della musica antica: si leggevano le partiture, si suonavano al cembalo il Wohlteperierte Klavier e l’Arte della Fuga. Si eseguivano mottetti e brani vocali, col Barone che faceva da soprano (!), mentre era di Mozart la parte del contralto ed altri musicisti prestavano le voci di tenore e basso. Si improvvisava, trascriveva, discuteva. Il Barone guidava il gioco e assegnava ai musicisti i compiti a casa per la settimana seguente.
Mozart prese parte con entusiasmo. Non l’avrebbe fatto se non avesse subito profondamente il fascino di quella musica così densa e inusuale che gli veniva da un mondo sconosciuto. Wolfgang trascrisse per trio (K404a) o quartetto d’archi (K405) alcune Fughe dal Clavicembalo ben temperato, più qualcun’altra dalle Sonate per organo di Bach e una Fuga di W.F. Bach, aggiungendo probabilmente di sua mano Preludi à la Bach.
Nelle lettere di Mozart al padre si coglie l’emozione della scoperta del Patriarca e del suo Clavicembalo ben temperato. “Questo libro di Fughe era sempre aperto sul suo pianoforte”, ci fa sapere Thomas Attwood, un allievo di Mozart. L’ossessione di van Swieten ha preso il ventiseienne salisburghese in cerca di spazio a Vienna. Anche Constanze non vuole “ascoltare altro che Fughe, e anzi, in questo campo, nient’altro che Händl e Bach”, e in più incita il marito a scriverne di sue. Wolfgang accondiscese. Ma non sono importanti tanto queste composizioni, molte delle quali lasciate a metà, quanto l’immissione di elementi dello stile fugato nei grandi lavori che Mozart aveva in corso e nei successivi. La scoperta di Bach lascia nell’arte di Mozart tracce permanenti; qualcuno vi ha scorto “un cambiamento di fase nel suo metodo compositivo”. Dalla tomba e ad infrazione del tempo, il Thomaskantor gli fu maestro.
L’interesse di Mozart per Bach non fu episodico. Diretto a Berlino nel corso del viaggio più strampalato della sua vita, Mozart passò nel 1789 da Lipsia e volle visitare la Thomaskirche dove Bach era stato Kantor dal 1724 al 1750. È una scena memorabile quella che ci viene descritta. Lo attendeva il decrepito Thomaskantor in carica, Johann Friedrich Doles, che di Bach era stato allievo. Mozart suonò l’organo che era stato di Bach “senza preavviso e senza compenso” davanti a un folto pubblico. Doles si commosse: gli parve che “il vecchio Sebastian Bach fosse resuscitato. Con buon gusto e con la massima facilità Mozart dispiegò tutta l’arte dell’armonia e improvvisò magistralmente sopra alcuni temi, fra cui il corale Jesu, meine Zuversicht... ” Ma a questo punto anche il vecchio Kantor ha in serbo una sorpresa : sotto la sua direzione il coro della Thomasschule attacca il Mottetto Singet dem Herrn ein neues Lied. “Quando il coro tacque, Mozart gridò deliziato: – Qui sì c’è qualcosa da imparare –” Fu informato che la scuola possedeva la raccolta completa dei Mottetti di Bach. Chiese di vederli. Non c’erano partiture complete, ma solo parti singole. Allora “prese le singole parti, e fu un piacere per chi era presente vedere con quale eccitazione Mozart si sedette con tutte le parti intorno a lui, tenendole con entrambe le mani, sulle ginocchia, sulle sedie vicine. Dimentico di tutto il resto, non si rialzò in piedi se non dopo aver esaminato tutta la musica di Sebastian Bach…”
Negli anni ’80, da un gruppo di aristocratici interessati all’alte Musik che van Swieten radunò intorno a sé, nacque la Gesellschaft der Associierten, Società musicale che organizzò a Vienna rappresentazioni di Oratori di Händel e di C.P.E. Bach. Dal 1787 Mozart ne diresse la ragguardevole orchestra composta da più di ottanta elementi.
È Mozart stesso l’autore degli arrangiamenti. Oltre a supplire alla mancanza dell’organo, si voleva attualizzare quelle antiche musiche per renderle più conformi al gusto del tempo, dunque meglio fruibili. E allora, dentro fiati, specie i nuovi clarinetti, e trombe e tromboni Altro che filologia e prassi esecutive – siamo solo nel ’700. van Swieten in persona aggiusta o traduce i testi (senza rinunciare a dir la sua anche in ambiti più strettamente musicali), Mozart cura la trascrizione del Messia, che già gli era noto dai tempi di Londra e Mannheim, e di altre opere händeliane. Occorre dire che il salisburghese fu sostanzialmente rispettoso delle musiche di Händel e si limitò quasi soltanto ad aggiungere righe in partitura per i fiati. Chi più si diede da fare con tagli, spostamenti e riassegnazioni di arie sembra essere stato proprio il Barone.
Nel marzo 1789 la nuova versione del Messia fu eseguita sotto la direzione di Mozart nel palazzo dei principi Esterházy a Vienna, insieme all’Oratorio Die Auferstehung und Himmelfahrt di C.P.E. Bach. Ma anche il Barone-musicofilo si esibì sul podio dirigendo l’arrangiamento mozartiano di Acis e Galatea. Il giudizio dei posteri su questi arrangiamenti di Mozart si è diviso. Il nostro secolo li ha giudicati “eleganti stucchi applicati su un tempio marmoreo, facilmente scrostabili dal tempo”.
Il singolare sodalizio umano e artistico fra il Barone e Mozart non si interruppe che con la morte del compositore. Negli ultimi difficili anni van Swieten aiutò Mozart come poté, affidandogli incarichi e trascrizioni, sottoscrivendo partecipazioni ai suoi concerti (“dopo due settimane la lista dei sottoscrittori consta del solo van Swieten...” ci informa Mozart stesso a proposito di un concerto del 1789), forse anche con qualche aiuto finanziario diretto. Certo il Barone non poté essere per il musicista spendaccione quella specie di “cassa continua” che fu il commerciante Puchberg. Ma lo stesso Mozart mai avrebbe osato rivolgere al parsimonioso aristocratico le penose richieste con cui tempestò il borghese compagno di loggia massonica.
Con la morte di Giuseppe II nel 1790 la storia sembra voltar pagina. Il successore Leopoldo II dette una decisa sterzata in senso conservatore. La riforma dell’Educazione che van Swieten aveva messo in cantiere conforme agli indirizzi del defunto Imperatore fu messa da parte, e il suo autore con lei. Il 5 dicembre 1791 il Barone fu estromesso dai suoi incarichi ufficiali. Lo stesso giorno si spegneva il genio di Mozart. Tra i pochi che fecero visita alla povera salma, van Swieten ci andò con in tasca la lettera di licenziamento di pugno dell’Imperatore. Gli si rimproveravano simpatie per gli ambienti progressisti; e qualcuno avrebbe potuto ricordare che suo padre, pur medico personale dell’Imperatrice, amava definirsi “un piccolo repubblicano”. Intanto dalla Francia tirava vento di rivoluzione. Nei giorni del funerale di Mozart si respira a Vienna un’atmosfera torbida. Per van Swieten lo scacco è bruciante, e ancor più il sospetto di slealtà verso la Corona. Tuttavia, quella che sembrava una dismissione fu solo una temporanea eclisse. Leopoldo II si affrettò a raggiungere la pace eterna, e il Barone fu così abile da farsi reintegrare nei suoi incarichi dal successore Francesco. Punto focale della Vienna in musica continuerà ad essere lui. Sarà lui ad organizzare a favore della vedova dell’amico la prima esecuzione viennese del Requiem di Mozart che l’allievo Süssmayr ha “completato” dopo la rinuncia di Eybler. E continuerà ad occuparsi dell’educazione dei figli finché Constanze si sarà trovata un altro marito.
Il panorama musicale del 1792, l’anno di forzata vacanza del Barone, è singolarmente piatto: Mozart non è più e Haydn è a Londra. Ma giusto al suo ritorno, e proprio per prendere lezioni dal glorioso reduce d’Oltremanica, approda a Vienna un giovanotto renano che si è già fatto una certa fama di pianista. Due fatti singolari propiziano l’incontro di Beethoven con il Barone: la comune ascendenza fiamminga – entrambi “van”– e soprattutto la perfetta conoscenza del Clavicembalo ben temperato da parte del giovane. Merito del suo maestro Christian Gottlob Neefe (che aveva fatto letteralmente carte false, scorciandogli l’età, per passare il suo allievo tredicenne come un “secondo Mozart”); ma anche segno evidente che nella Germania del Nord la tradizione bachiana era ancor viva. Non ci volle molto perché il giovane Beethoven venisse calamitato nella cricca di van Swieten e cooptato dall’aristocrazia musicale viennese che, morto Mozart, pativa la mancanza di un pianista e improvvisatore di rango. Beethoven pareva fatto apposta per colmare la lacuna, e certo l’amicizia del Barone gli tornò utile. In cambio van Swieten poté tornare a godersi le sue Fughe predilette come dieci anni prima; anzi, questa volta il pupillo non era da iniziare alla difficile arte, ma ce l’aveva già tutta nelle dita. Anton Schindler, un amico di Beethoven, ricorda che dopo le performances concertistiche in casa van Swieten, “quel vecchio signore musicalmente insaziabile” tratteneva Beethoven e lo persuadeva a suonargli ancora qualche Fuga di Bach come buonanotte, lasciandolo andare solo a notte alta. Non solo: dietro insistenza del Barone, Beethoven traspose per quartetto d’archi almeno un paio di Fughe dal Clavicembalo ben temperato. van Swieten non cessava di incitarlo allo studio del contrappunto, informandosi poi circa i suoi progressi. Ci riesce difficile immaginare l’esuberante musicista in preda alla pedanteria pedagogica del sessantenne Barone. Forse lo fece più per Bach, da lui giudicato il “Patriarca dell’armonia”, che non per il suo aristocratico coach. Comunque Beethoven volle onorare l’amicizia di van Swieten e a lui dedicò nel 1800 la sua Prima Sinfonia.
Molto diversi furono i rapporti del Barone con la terza persona della Trinità musicale del classicismo viennese, che gli era, entro l’approssimazione di un anno, coetanea. La fama di Haydn raggiunge van Swieten a Berlino, ma è solo all’inizio degli anni ’90, alla morte del gran principe Myclos che Haydn, ormai quasi sessantenne, smette la livrea degli Esterházy, si stabilisce a Vienna e si dà alla libera professione. Il cui primo fiore è il trionfale viaggio a Londra propiziato dal Salomon. Non sappiamo se il Barone abbia avuto un ruolo in questo, ma certo lo ebbe in occasione del secondo viaggio londinese del 1794-95, perché lo troviamo fra i finanziatori dell’impresa che avrebbe visto l’acuto sinfonico finale del maestro. È dopo il ritorno da quest’ultimo viaggio che Haydn entra stabilmente nell’orbita di van Swieten. Dalla capitale inglese, oltre a fronde di alloro, lauree honoris causa e un bel gruzzolo di sterline, l’ormai anzianotto Haydn porta con sé il testo inglese di un Oratorio ispirato al Paradise lost di Milton, che Händel, scoraggiato dall’eccessiva lunghezza, aveva rifiutato. Sarà che il soggetto – la Creazione – non è privo di ambizione: è noto che creare un universo ex nihilo un bel po’ di lavoro lo comporta, anche per un padreterno. Haydn, impressionato dalle rappresentazioni del Messia e di Israele in Egitto cui aveva assistito in Inghilterra, vuole cimentarsi col testo davanti al quale è arretrato Händel. Ma nei fatti, le difficoltà si rivelano non di poco conto, anche a causa della sua cattiva conoscenza dell’inglese. No problem, o meglio kein Problem. Perché qui arriva il Barone, prende come suo solito in mano la situazione e snocciola una bella (e libera) traduzione tedesca del libretto. Sulla quale il nostro Haydn scivola via senz’altro intoppo seguendo il suo estro creativo – per l’appunto. E così anche la Creazione, ovvero Die Schöpfung, è fatta. In realtà, il nuovo nato costò un’enorme fatica a papà Haydn, come attestano le sue tormentate minute.
La prima rappresentazione pubblica dell’Oratorio avvenne nel 1799 al Burgtheater; il successo fu strepitoso e dilagò rapidamente per tutta l’Europa. Nel frattempo, a dire il vero, la partnership fra il Barone e il musicista aveva già prodotto un primo risultato. Nel lontano 1786 Haydn aveva spedito al suo committente, il Canonico della Cattedrale di Cadice, le Ultime sette parole del Salvatore. Si tratta di una composizione strumentale che Haydn trasforma l’anno seguente in quartetto e dieci anni dopo in oratorio per la Passione. È il 1796 quando un testo, dovuto a Freibert, viene arrangiato da van Swieten alle esigenze di Haydn e da questi calato in musica. È questo il primo nato dalla collaborazione fra i due.
Il ruolo di van Swieten, come librettista e non solo, va crescendo di importanza e deborda sempre più ad ogni successiva impresa della strana coppia. Forse anche per questo, alla fine della Creazione il vecchio Haydn non ne vuol più sapere. È stanco; d’altronde anche un Altro si riposò in circostanze analoghe. Ma il Barone no. Galvanizzato dal successo, van Swieten pensa al bis, e da un poema inglese di James Thomson trae il libretto di un nuovo oratorio, Die Jahreszeiten, o Le Stagioni. Ma non si limita a questo. A margine annota istruzioni su come mettere in musica il testo, specie nei passaggi descrittivi. Beneficiario del libretto e dei suggerimenti sarà naturalmente il buon Haydn. Sono da immaginare i due settantenni, l’uno stanco e poco motivato, ma in ultimo accomodante, che impiega tre anni a riempire il pentagramma di tutte le note necessarie, l’altro dispotico e proattivo che non cessa di “incoraggiarlo”, di dare “consigli”, di sollecitare l’avanzamento. Non c’è dubbio che il capo-commessa sia stavolta il cocciuto Barone. Il povero Haydn è costretto a scrivere alcuni passaggi che più tardi, in un riflusso di indipendenza, cancellerà, come un pezzo imitativo del gracidare dei ranocchi. Dopo un triennio di pressing, l’Oratorio è finito. La prima esecuzione è del 1801, a cura di van Swieten e amici della Gesellschaft. Ma il momento clou segue di lì a poco: una rappresentazione a Corte che si vale di un soprano d’eccezione, l’Imperatrice Maria Teresa in persona (non l’antica Matriarca, naturalmente, ma l’omonima consorte di Francesco II). Il successo non può mancare, anche se non uguaglierà quello della Creazione.
Con Le Stagioni si chiude l’estrema stagione haydniana, quella dei grandi Oratori. Soltanto due anni dopo l’instancabile Barone lascerà questo mondo; sarà lo stanco musicista suo coetaneo a sopravvivergli per più di un lustro.
Per la scomparsa di van Swieten l’Allgemeine Musikalischer Zeitung scrisse, a mo’ di epitaffio funebre: “con lui la musica perde un importante Mecenate, e il mondo un uomo retto e leale... van Swieten non appartenne ad alcuna scuola o setta, ma accolse ogni vero talento, anche se i suoi favoriti furono Händel, Sebastian Bach, Mozart e Haydn, coi quali ebbe a che fare pressoché giornalmente...”. Era il 1803.
Riconosciamo dopo due secoli che l’influente Barone occupò uno snodo critico fra due epoche musicali: non fu solo ambasciatore di Maria Teresa, ma anche di Bach e Händel nel suo paese e nel suo tempo. Come san Paolo non conobbe il Maestro, né fece parte della cerchia dei discepoli. La sua vocazione avvenne per folgorazione diretta. La sua vita ne trasse nuovo significato, e si investì della missione di apostolo fra i gentili. Forse fu un apprezzamento simile che spinse Forkel a dedicare la sua fondamentale biografia di Bach proprio a lui.
Non fu un uomo eccezionale, ma piuttosto un mediocre eccellente, moderatamente dotato di talento e attivo nel farne uso. Ostinato e leggermente monomane, ci si mise d’impegno e seppe dare il meglio di sé. Ebbe familiarità con uomini fuori dal comune, frequentò geni e potenti senza essere dei loro, non senza influenzarli; per sé seppe inventare una parte non obbligata la cui omissione avrebbe cambiato la musica, quella che non scrisse e che senza di lui non sarebbe stata scritta. La sua rievocazione è dedicata agli operosi mediocri, quadri intermedi della storia del mondo, cui spetta l'esecuzione della linea di basso continuo della vicenda umana.
Giancarlo Bernacchi